
Libertà per Jafar Panahi, imprigionato in Iran dal 1° marzo scorso e per questo assente nella giuria di Cannes 63, dov’è rimasta la sua sedia vuota: "Non posso capire come un film possa essere un delitto, e ancor di meno un film che non è ancora stato fatto", ha detto il suo collega e amico Abbas Kiarostami, in concorso con Copia conforme, girato in Toscana tra Arezzo e Lucignano e interpretato dalla francese Juliette Binoche e dal baritono inglese William Shimell. Dopo il suo assordante silenzio sulla situazione in patria, oggi Kiarostami ha saputo in conferenza stampa dello sciopero della fame iniziato da Panahi ed è passato all’attacco, si fa per dire: "Non è possibile prevedere nulla ma non dobbiamo perdere la speranza", ribadendo che "un cineasta in prigione è intollerabile" e che già in marzo aveva scritto una lettera aperta, con scarsa eco in Europa (noi ne avevamo parlato con il regista Bahman Ghobadi sul Fatto del 14 aprile), in cui chiedeva la libertà di Panahi -“Si è visto obbligato a girare clandestinamente, le autorità gli impedivano di esercitare la sua professione” - e denunciava la situazione dei cineasti indipendenti.
Sarà, ma prima il ritardo e poi la bella occasione (Cannes) per il rigurgito anti-regime di Kiarostami paiono poco limpidi, meglio dunque concentrarsi sul nuovo lavoro del regista Palma d’Oro con Il sapore della ciliegia: ma le cose non migliorano, perché è una brutta, pretenziosa e pedante copia di un originale mai esistito, Viaggio in Italia di Roberto Rossellini. Non bastasse, lo scrittore interpretato da Shimell (un incrocio di Mourinho, Mr. Big e Mr. Bean…) sostiene che “una buona copia spesso è meglio dell’originale”, al netto di ogni presunzione, s’intende. Ma questo è cinema non apolide, non esule, semplicemente non luogo, perché è un Kiarostami snaturato, che sotto il sole della Toscana brucia la sua cifra stilistica e l’urgenza poetica in un tira e molla “fintamente” coniugale, veramente noioso. Consegnando al fuoricampo, ovvero allo spettatore, un interrogativo mortale: a chi giova?
Giova molto, viceversa, l’Autobiografia Lui Nicolae Ceausescu del rumeno Andrei Ujica, presentato in quel fuori competizione che è il territorio migliore di questa edizione. Straordinario documentario di montaggio, sono tre ore desunte da mille di materiale d’archivio, perché il dittatore per 25 anni si fece riprendere in media ogni giorno dai fedeli operatori ufficiali: a scorrere sono incontri con capi di stato, saluti e bagni di folla, discorsi, parate, sopralluoghi e riunioni di partito del Ceausescu che regnò dal ‘67 al 1989, quando fu deposto, processato e giustiziato il 25 dicembre.
Ma Ujica, se apre e chiude sull’interrogatorio a cui fu sottoposto prima della morte, per il resto racconta “Ceausescu attraverso Ceausescu, senza manipolazioni esterne, con le immagini che lui stesso aveva voluto per sé”. E la domanda che ci riguarda da vicino è questa: chi la farà da noi un’analoga Autobiografia? Perché, Ujica ci ricorda, “un dittatore è solo un artista capace di mettere completamente in pratica il suo egotismo”. Capito di chi parliamo?
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